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Fotografare con rispetto. L’esempio di Where Love is Illegal

La fotografia documentaria, e quella giornalistica, presuppongono un’intrinseca superiorità del fotografo sul proprio soggetto, come ho già scritto citando il linguista Clive Scott.

Spesso questa disparità di potere tra autore e oggetto della narrazione tende a confermare degli stereotipi visivi anziché metterli in discussione. Anche quando l’aspirazione del reporter è rendere testimonianza e dare voce a chi non ce l’ha.

Ci sono tuttavia dei casi in cui le convinzioni e la sensibilità del fotografo, o le circostanze in cui vengono realizzati gli scatti, producono immagini diverse dal solito.

Come in Where Love is Illegal, progetto del fotografo neozelandese Robin Hammond.

La carriera di Hammond è iniziata in modo piuttosto tradizionale, documentando grandi temi sociali come le guerre, lo sfruttamento del territorio, la droga e la malattia, soprattutto nel continente africano. Come tutti i giovani professionisti, Hammond credeva che se le sue foto fossero state pubblicate o avessero vinto dei premi avrebbero potuto produrre dei cambiamenti positivi. Ma questo accade raramente.

Proprio mentre stava lavorando a Condemned, un reportage sulle condizioni di vita delle persone con problemi di salute mentale nei paesi africani in crisi, dove non ci sono risorse da dedicare alle cure e i malati vivono rinchiusi e incatenati, quasi completamente abbandonati dalla società, Hammond si è chiesto come fare per restituire la dignità alle persone che stava fotografando e il porsi questa domanda ha cambiato il suo modo di vedere.

«Con la testimonianza viene la responsabilità e l’essere privilegiati comporta un obbligo morale nei confronti delle persone che sono state meno fortunate di noi» spiega, ricordando quel momento, in un incontro organizzato da “National Geographic”, che si può vedere qui.

Questo cambiamento di mentalità si riflette nel suo lavoro successivo, Where Love is Illegal.

L’inizio del progetto è stato determinato dall’arresto di cinque ragazzi gay in Nigeria nel 2015.

Robin Hammond sapeva che metà della popolazione mondiale vive in paesi in cui ci sono leggi che vietano i rapporti omosessuali o che considerano l’essere gay o transessuale immorale e contro natura. In questi posti la narrazione dominante e incontrastata sulle persone LGBTQI+ è basata su stereotipi negativi fondati sull’omofobia, l’intolleranza e il pregiudizio.

Quello che Hammond poteva fare, come professionista della narrazione per immagini, era di contrastare le narrazioni omofobe dando voce a chi è costretto a nascondersi per paura di perdere la vita o la libertà e a chi è sopravvissuto a violenze e abusi, spesso nella propria famiglia o comunità.

In pratica questo si è tradotto nella scelta di lavorare con pellicola polaroid e di dare alla persona ritratta la possibilità di distruggere fisicamente le foto che non voleva fossero mostrate.

Molti hanno scelto di nascondere il proprio volto e di usare un nome fittizio ma, nonostante la paura, tutti ci tenevano a dare una testimonianza, sperando che il proprio gesto potesse produrre un cambiamento significativo e fosse di incoraggiamento per chi vive situazioni difficili.

Hammond ha anche chiesto a ogni persona ritratta di scrivere la propria storia come accompagnamento per l’immagine, garantendo così a tutti di potersi esprimere integralmente. Amplificando le voci.

Molte delle persone ritratte avevano, per la prima volta nella loro vita, la possibilità di decidere come essere ritratte, e quindi come essere viste, e di parlare liberamente di se stesse.

Hammond ammette quanto sia stato difficile per lui cedere il controllo del lavoro alla persona fotografata, accettando il risultato finale, anche quando si rivelava del tutto inaspettato.

E la scoperta – a mio avviso – più interessante che ha fatto, coinvolgendo così profondamente il soggetto della foto nel processo decisionale e creativo, è che non sempre le immagini rispecchiano la storia.

Una lezione importante per tutti coloro che lavorano nel campo della fotografia giornalistica: per i fotografi che devono trovare il modo di approcciarsi a un argomento e raccontarlo e per i redattori che devono scegliere quale foto mettere in pagina.

Qui c’è il ritratto di una bella ragazza, Jessie, con il volto coperto da un velo perché è stata vittima di violenze, stupro e diversi tentativi di omicidio, causati dal suo essere nata maschio.

Hammond credeva che il ritratto di Jessie avrebbe dovuto testimoniare tutto questo, Jessie invece voleva che la foto mostrasse lei e il suo modo di essere, non la sua storia. Perciò ha scelto una posa provocante e il suo sguardo profondo cerca di sedurre lo spettatore.

È questo il modo per permettere a chi viene discriminato, chi è sopravvissuto a esperienze dolorose, chi rischia quotidianamente la propria incolumità, di riappropiarsi di dignità e orgoglio: dargli il controllo della propria rappresentazione.

Le storie delle persone ritratte da Robin Hammond fanno appello a ciò che ci rende umani, la necessità di amare e di essere amati e il diritto di vedere riconosciuta la propria identità.

Il rispetto con cui il fotografo ha lavorato con il suo soggetto emerge dagli scatti, infatti i ritratti di Where Love is Illegal mostrano persone, non vittime. E questo favorisce l’empatia dello spettatore.

Il passo successivo per Hammond è stato quello di conquistare la maggiore visibilità possibile, attraverso un sito e un account di Instagram, pensati non come portfolio personale ma come mezzo per dare a chiunque la possibilità di postare un autoritratto e raccontare la propria storia, interagendo con altre persone in tutto il mondo.

Questo ha permesso a molte persone di creare contatti, uscire dall’isolamento e ricevere solidarietà.

A distanza di tre anni Where Love is Illegal è parte di Witness Change un’associazione con diversi progetti di supporto a comunità LGBTQI+ in tutto il mondo, che mirano a incoraggiare le persone ad auto rappresentarsi, con le immagini e con le parole, a costruire quindi narrazioni alternative che possano contrastare l’omofobia e i preconcetti dettati dall’ignoranza e dalla paura della diversità.

Ovviamente non è necessario che un reporter diventi attivista per una causa per attribuire valore e significato al suo lavoro. Cercare di promuovere la consapevolezza e l’informazione su un argomento sono già risultati importanti.

Ma in tempi in cui sembrano esserci molta disaffezione e scetticismo nei confronti del lavoro giornalistico, Where Love is Illegal è un esempio di come si possa creare una comunicazione sentita e condivisa su temi che riguardano la vita e i diritti di moltissime persone.

E il metodo di lavoro di Robin Hammond, collaborativo e rispettoso, è una preziosa lezione per i reporter che vogliono lavorare nel campo delle crisi umanitarie e dei diritti civili, che non dovrebbero dimenticare mai che i soggetti delle loro foto sono prima di tutto persone che hanno diritto a vivere in sicurezza e a essere rappresentate in un modo che non leda la loro dignità, non metta a rischio il loro futuro e non li trasformi in uno stereotipo.

Marina Cotugno         CC BY-NC-SA 3.0 IT

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